Donne e startup: un rapporto complicato?

“Bolla o meno, si fa certo un gran parlare di startup, in Italia come nel resto del mondo. E aumentando in generale il numero di articoli sul tema, viene a galla anche un argomento correlato: la scarsa presenza di donne.

Il 2012 è iniziato con un augurio da parte di Alberto Onetti, co-fondatore della business plan competition Mind The Bridge, affinché quest’anno sboccino più “startup rosa”. Mi sono trovata citata nell’articolo tra le donne italiane che “ci stanno provando” a portare avanti una startup, e ciò mi ha fatto sentire certamente lusingata, anche se, allo stesso tempo, etichettata come parte di un fenomeno che non sono sicura abbia senso esistere.”

Inizia così un bel post pubblicato oggi su chefuturo.it da Arianna BassoliInteraction designer con un percorso di tutto rispetto (un dottorato alla London School of Economics e anni di esperienza all’estero come ricercatrice), è tornata in Italia per diventare una startupper.

Visto dall’esterno il mondo delle startup (soprattutto tecnologiche) sembra quasi un universo parallelo e migliore rispetto a quello delle organizzazioni, una dimensione in cui il merito la fa da padrone, dove è ininfluente chi tu sia, da dove vieni e quindi, ovviamente, di che sesso sei. Conti per la tua idea e basta. Beh, pare che non sia proprio così:

“il tema donne e startup è uno di quelli che spacca a metà l’audience, e non necessariamente con uomini da una parte e donne dall’altra.”

Bassoli espone quindi i termini del dibattito, dando ragione di ricerche, prese di posizione, dichiarazioni che coprono tutto l’arco possibile delle generalizzazioni in tema di “natura” femminile e ricordano in modo sconfortante  presupposti che vengono ripetuti fin dall’antichità: fra le altre cose, le donne sono restie a chiedere risorse per i propri progetti, sono trasparenti, sono poco propense al rischio, preferiscono avere lavori part time per stare a casa e dedicarsi ai bambini. Il che, tradotto nel linguaggio del 6-7-‘800 (solo per restare in epoche più vicine a noi) sarebbe equivalso a dire: le donne che sanno stare al proprio posto si rivolgono con prudenza al marito/padre/fratello/tutore da cui dipende la loro sopravvivenza, sono ingenue e innocenti, si sentono al sicuro solo fra le mura domestiche, non sopportano lavori prolungati perché la loro natura le porta a essere madri e a voler trascorrere più tempo possibile col frutto del loro ventre.

A costo di passare per antipatica, fra generalizzazioni e stereotipi ci metterei anche la presunta empatia femminile: solo a me è capitato di incontrare nei luoghi di lavoro donne fredde e insensibili ai limiti dell’inverosimile?

Proseguendo poi nella lettura dell’articolo, si scopre che “a New York ci sono il doppio di donne fondatrici di startup rispetto alla Silicon Valley”. Questo apre scenari che ritraggono una Palo Alto poco a “misura di donna” e che mi fanno tornare alla mente un articolo apparso qualche mese fa sul New Yorker e ripreso da Internazionale, intitolato «La mente di Facebook». Il pezzo era su Sheryl Sandberg, COO di Facebook, figura che ha contribuito in misura importante a fare dell’azienda quello che è oggi, nonostante la sua riconoscibilità ed esposizione mediatica siano di gran lunga inferiori a quella di Zuckenberg.

AB non si lascia sfuggire nemmeno l’esistenza dello stereotipo al contrario per eccellenza, quello secondo cui una donna che si occupa di impresa, politica, ricerca, ecc., con determinazione e risultati degni di nota dimostrerebbe di “avere le palle” (quante volte l’ho sentita usare nelle aziende, anche da parte di donne in assoluta buona fede che intendevano fare un complimento ad altre donne), espressione che implica un riconoscimento ma ne sottende un’altra implicita che potrebbe suonare più o meno così: “è stata brava quasi come un uomo”. Comunque la si pensi, resta che il fatto che esiste tutta una serie di motivazioni sociali, storiche e ambientali che hanno fatto sì che tuttora le donne, a parità di preparazione, curriculum, e percorso in azienda, “ricevono stipendi più bassi e un minor numero di promozioni rispetto agli uomini”. Tutti gli studi lo dimostrano e la strada da percorrere è senz’altro ancora molto lunga.

La cosa che mi è piaciuta di più nel post è che A.B. non offre ricette, né punti di vista, ma ci racconta la sua esperienza diretta:

“In effetti è capitato che alcuni uomini, soprattutto in posizioni di potere, mi abbiano approcciato con diffidenza e preferito rivolgersi a uomini nella mia stessa posizione. In altri casi, mi sono sentita considerata un po’ come un animale da circo e vista come donna piuttosto che startupper. E posso assicurare che questo non succede solo in Italia. Mi ricordo quando la mia socia Johanna è tornata da un meetup a Londra infuriata per essersi sentita giudicata per il look e il modo di vestire da parte di alcuni uomini. Questi comportamenti sono per fortuna abbastanza rari, spesso dovuti al fattore precedentemente descritto, ad aspetti culturali, o semplicemente generati dall’ignoranza. Ma possono decisamente contribuire a far sentire una donna a disagio e fuori posto.”

Purtroppo, non si può dire che il discorso valga unicamente per il mondo delle startup. A chi non è capitato di sospettare che quel fantastico posto venisse dato al collega più giovane e inesperto (magari anche senza famiglia, ché sulla life/work balance potremmo sprecare fiumi di inchiostro elettronico) semplicemente perché è un uomo, di sentirsi apprezzate da un capo quando si dimostrano durezza e polso eccessivo nei confronti di sottoposti e collaboratori, di dover sempre dimostrare che si è più brave, più disponibili, più pazienti più più più dei colleghi maschi solo per ricevere la medesima considerazione, di sentirsi trattare con sufficienza e cattiveria da colleghe più anziane che vedono ragazze più giovani come una minaccia o si ergono a maestre di vita “perché loro ne hanno passato tante e sanno come va il mondo”? O ancora, più banalmente, di chiedersi davanti allo specchio al mattino se per quella riunione o per quell’incontro questa gonna è troppo corta o quella camicetta troppo scollata, se rischiamo di dare un’impressione sbagliata. Confesso che persino io, che non mi preoccupo di aderire ad alcun un modello di ruolo e non ricevo da nessuno alcun tipo di pressione su come comportarmi quando entro in un’aula di formazione (dove i partecipanti sono spesso tutti maschi) o in un meeting come un DG  o un AD (non ne parliamo), a volte mi pongo il problema. E mi secca quando me ne rendo conto, mi secca moltissimo perché questa consapevolezza mi ricorda che gli stereotipi agiscono in modo subdolo, ti vengono iniettati a tradimento nel corso della crescita, pronti a saltar fuori quando trovano le condizioni favorevoli e quando meno te lo aspetti.

Anche per questo non posso che sottoscrivere una frase che scrive A.B. nel post:

La verità è che preferirei essere vista prima di tutto come startupper, vorrei non essere trattata come “diversa” e vorrei che mi venissero date pari opportunità rispetto agli uomini.”

Pare incredibile che nel 2012 e dopo oltre due secoli di femminismo e di movimenti e battaglie per il riconoscimento a ogni livello della parità fra uomo e donna ci troviamo ancora qui a parlare di questo, come se non fosse una richiesta naturale e perfettamente legittima.
L’immagine di Arianna Bassoli è di Joi ito, rilasciata con licenza CC BY 2.0 e l’ho presa qui.

[Il post è uscito in origine sul blog  Oscilloscopio azzurro]

I contenuti di questo post sono rilasciati con licenza Creative Commons 3.0 (CC BY-NC-SA 3.0).

Condividi con la tua rete!

Dicci cosa pensi

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Ritrova la centratura con Shibumi: parti dal Podcast!