Spazi abitabili e inabitabili

Nel primo post sul Costruttore, abbiamo detto che il rischio di questa figura è quello di perdere la capacità di progettare e realizzare spazi e sistemi slegati dalle reali esigenze delle persone, non più a “misura d’uomo” ma riflesso perfetto di un’idea, perdendo contatto con il tempo presente. Se avviene questo, il Costruttore finisce per costruire edifici (reali o meno) per ipotetici abitanti del futuro, sentendosi incompreso nel “qui e ora”. Quando si trova in una condizione di squilibrio, può essere lacerato tra due tensioni contrastanti. O si muove in un ambito troppo generale, creando dimensioni abitative (fisiche o metaforiche) poco connesse con i bisogni specifici della comunità oppure tende a creare uno spazio che, in quanto emanazione diretta della sua dimensione interiore, risulta non abitabile e non utile agli altri.

Un buon esempio che ci permette di comprende il “lato oscuro” del Costruttore è quello del cinema di Stanley Kubrick. Nei film di Kubrick lo spazio e gli edifici presentano molto di frequente una dimensione non del tutto umana od ostile. La bellezza e la grandiosità delle scenografie spesso è il riflesso di visioni o incubi che respingono l’essere umano. La sala di guerra del dottor Stranamore, la Londra di cemento di Arancia Meccanica, l’Overlook Hotel di Shining, la villa di Eyes Wide Shut, sono macchine per produrre fantasmi. E quale miglior simbolo della distanza che il Costruttore può creare tra se e gli altri del celebre monolite di 2001 Odissea nello spazio? Un oggetto liscio e geometrico che genera sgomento e inquietudine, ma che forse è anche alla base dell’evoluzione umana. Il lato in luce del Costruttore è quello della visione di sviluppo offerta agli altri attraverso le sue creazioni, così come il valzer finale di 2001 è un sogno di sviluppo cosmico che il costruttore Kubrick lascia ai suoi spettatori. E i suoi film sono splendide costruzioni per far viaggiare la mente e gli occhi.

Anche in ambito musicale, si possono incontrare forme espressive in cui questa tensione è molto evidente. Pensiamo a tutta la cosiddetta musica ambient, realizzata, soprattutto nell’esperienza di Brian Eno, per mettere a disposizione dell’ascoltatore una zona sonora da abitare e in cui muoversi facendo altro (leggendo, cucinando, rilassandosi, meditando, dormendo). Si tratta di una linea di evoluzione della musica occidentale che entra in risonanza con altre esperienze: dall’exotica di Les Baxter al minimalismo di Philip Glass, Michael Nyman e Wim Mertens; dalla grande musica cosmica tedesca degli anni settanta, che utilizzava l’elettronica per creare architetture sonore psichedeliche e meditative (si possono ascoltare, tra gli altri, i dischi di Tangerine Dream, Neu!, Cluster, Harmonia) fino ad arrivare a esperienze musicali più recenti. La scena ambient inglese degli anni ottanta-novanta creava lunghissime suite acquatiche e leggere, appositamente concepite per le chill-out room dei locali londinesi. Sono tutte musiche pensate per dare una sensazione di fluttuazione della memoria e della percezione e per staccare l’ascoltatore dal presente facendolo accedere a un’esperienza percettiva “altra”. Il rovescio della medaglia è quello di suoni che a volte possono sembrare freddi, dissociati, artificiosi, privi di spessore e di corpo, noiosi. Anche in questo caso il Costruttore a volte rischia di inseguire vertiginosi edifici (questa volta musicali) che quasi nessuno può riuscire ad abitare in modo evolutivo.

Forse può sorprendere, ma è proprio nell’ambito nella musica dance che si ritrova il legame più saldo tra la costruzione di ambienti sonori e la capacità di trasmettere in modo diretto sensazioni in grado di portare le persone a un livello di percezione ulteriore. Descrivendo il loro approccio alla musica, tutti i grandi dj parlano della necessità di creare un livello di connessione con le persone che ballano, consapevoli che da questo legame si può generare un’ondata di energia. Walter Gibbons, uno degli inventori del djing moderno, una volta ha detto “devi pensare che ogni volta che cambi un disco, il titolo o qualcosa di quel titolo sta entrando nella testa della gente”. La musica e il ballo uniti in un grande rituale di elevazione collettiva: è questo il sogno realizzato da tutti i grandi protagonisti della storia del turntablism, da Larry Levan a David Mancuso e Nicky Siano, da Daniele Baldelli ai DJ dell’Hacienda di Manchester, ai grandi maestri del dub e della dancehall giamaicana. Ha scritto il critico inglese Simon Reynolds, “L’arte del dj prevede l’abilità di prendere più tracce e unirle in una metatraccia, un flusso potenzialmente interminabile. Ripetizione e interconnessione evocano una sensazione di piacere senza limiti”. Il dj è un costruttore che conosce l’arte di creare legami tra le persone.

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