I Millennial, questi sconosciuti

Millennial (o appartenenti alla Generazione Y) sono tutte quelle persone nate fra gli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila. Sono quelli che, per chi come me si avvicina a lunghi passi agli -anta, ti fanno sobbalzare dalla sorpresa perché pare incredibile che qualcuno nato nel 1990 (quando io mi stavo per diplomare) oggi sia adulto e voti già da un po’. Tant’è.

Qualche giorno fa, mi è capitato di leggere un articolo su «La Stampa», un reportage su come venivano vissuti gli esami di maturità a Cantù. Mi ha colpito la tranquillità con cui l’autore chiamava a raccolta tutti i triti clichés sul giovanilismo vuoto e inconsistente per descrivere questi diciottenni, all’apparenza tutti in maglietta colorata, occhialini e aria vacanziera e interessati solo al proprio smart phone e all’estate che avanza. “Sono ragazzi così, gli studenti delle generazione 2punto0”. (scritto così, giuro) A confermare la brutta impressione che fanno questi studenti all’autore dell’articolo, arriva la dichiarazione di un membro della commissione d’esame: “Questi ragazzi sono molto svegli. Ma noi studiavamo di più. Molte cose le hanno perse… Invece di un pensiero articolato, ragionano in 140 caratteri, al ritmo di Twitter”. Ed eccoci arrivati al punto. Al di là di quella che può essere la nostra prospettiva soggettiva su questa fascia di popolazione e della diffidenza che spesso suscita il loro rapporto disinvolto con la tecnologia a chi ha qualche anno e qualche difficoltà in più rispetto al tema, mi pare che gli stereotipi con cui questi ragazzi sono costretti a convivere (come avviene da sempre a ogni ricambio generazionale) non aiutino a capire se davvero questo “nuovo che avanza” sia diverso dalle generazioni di giovani che l’hanno preceduto.

Leggendo l’articolo, mi è venuta in mente la collega che, di recente, mi ha raccontato del bell’esame di maturità della nipote, una ragazza sveglia e in gamba che ha scelto come argomento della sua tesina un tema difficile come quello della NDE (Near-Death Experience). La distanza fra l’immagine che offre questo spaccato di vita vissuta e quello che traspare dall’articolo si ricompone quando passo a un altro reportage, quello di Flavia Amabile da Reggio Calabria, pubblicata sulla stessa pagina del quotidiano torinese. Qui, chissà perché, i ragazzi non hanno l’aria vacanziera, gli short e l’aria strafottente, ma sono impegnati a discutere di “Kosmo e Chaos sintesi della vita” o di «Follia, una congiura dell’inconscio ai danni della ragione». Un altro paese? Un’altra epoca? Probabilmente, solo una prospettiva diversa di osservazione.
D’altronde, il sospetto e la diffidenza nei confronti delle nuove generazioni non sono sentimenti che abbiamo inventato noi. Basta scorrere i saggi che compongono l’interessante raccolta Storia dei giovani (pubblicata qualche anno fa da Laterza e curata da Giovanni e Levi e Jean-Claude Schmitt) per rendersi conto di come ogni società, in ogni periodo storico, abbia trovato dei modi per contenere e disciplinare la supposta carica sovversiva di giovani e adolescenti. Venendo a periodi più vicini a noi, anche i baby boomer sono stati vittime della tentazione di etichettare le persone per appartenenza a classi di età, come si legge nel rapporto “Age-Based Stereotypes: Silent Killer of Collaboration and Productivity

Chi ha paura dei Millennial?

Temere questi ragazzi ci aiuta a capirli? Ancora meglio, ci aiuta a capire in che modo potranno inserirsi nella società e nel mondo del lavoro, dato che sono i giovani dipendenti di oggi e che presto rappresenteranno una fetta importante del mercato del lavoro?
Mi torna in mente un rapporto di un paio d’anni fa sul rapporto fra Millennial e nuove tecnologie e che esplorava le paure del mondo aziendale rispetto a un modo completamente nuovo di assorbire e trasmettere informazioni, di vivere i rapporti all’interno dell’azienda e con il mondo esterno:

“Le sfide inter-generazionali sono divenute ancora più ardue perché i giovani della generazione del nuovo millennio si comportano come se fossero nati con dei filamenti genetici nuovi, come sostiene il consulente Cam Marston, autore di Motivating the ‘What’s In It for Me?’ Workforce. Spiega l’autore: “Sono la prima generazione perfettamente tecnologica ad entrare nel mercato del lavoro. Non sanno che c’è stata un’epoca in cui durante le lezioni di matematica a scuola non si usavano le calcolatrici, i report non si trovavano su Internet, non c’erano i personal computer e non era possibile parlare con un amico attraverso i telefoni cellulari o mandando messaggini e farlo ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni a settimana.”

A differenza del buon giornalista de «La Stampa», però, l’autore spiegava come questo rappresenti un grande elemento di innovazione per il mondo aziendale e come si tratti semplicemente di trovare un modo per comunicare con questi giovani e attingere alle enormi potenzialità del loro approccio:

“Il discorso sarà diverso per quei leader che impareranno dalla nuova generazione. La consulente di gestione del contesto lavorativo e autrice Tammy Erickson spiega che i millennial porteranno l’innovazione nel mondo del business semplicemente condividendo le proprie idee sul modo in cui le cose dovrebbero funzionare. Il loro “dono non consiste nel sapere come si usi una tecnologia, quanto nel fatto che il modo in cui la usano li porta a pensare e ad agire in modo diverso”.
“Con il loro atteggiamento nei confronti delle nuove tecnologie, la loro fiducia e il loro approccio aperto alla vita, i giovani che appartengono alla generazione del nuovo millennio promettono di sconvolgere il tradizionale modo di pensare al lavoro e al modo in cui viene svolto. I CIO e i loro colleghi nelle aziende hanno l’opportunità unica di sfruttare l’atteggiamento e le energie di questi giovani.”*

Pensare e agire in modo diverso non sono forse la base della vera innovazione?

Vale la pena pensarci, senza pregiudizi e uscendo dai luoghi comuni, perché se ha ragione l’Online MBA Program dell’Università del North Carolina, entro il 2012 oltre un terzo della forza lavoro sarà rappresentata da Millennial (percentuale che arriverà al 50% entro il 2020). Osservandoli da vicino, potremmo avere delle sorprese: per esempio, che a loro interessano cose diverse, che, in un lavoro, non cercano le classiche 2 settimane di ferie pagate, ma la possibilità di farsi nuovi amici e che al primo posto non viene lo stipendio, ma la possibilità di crescere e di fare qualcosa che per loro abbia un significato importante.

I dati raccolti dall’Online MBA Program dell’Università del North Carolina sono stati riassunti in un’interessante infografica:

Gen Y In the Workplace Via MBA@UNC
Via MBA@UNC Online Business Degree & The YEC

* L’articolo originale si può leggere QUI.

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I contenuti di questo post sono rilasciati con licenza Creative Commons 3.0 (CC BY-NC-SA 3.0)

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