Interdipendenza e leadership, incontro necessario

Una delle sfide maggiori che spetta al Capo del villaggio è quella di riuscire a guidare le persone di cui è responsabile nei momenti di crescita e cambiamento. Nel classico I sette pilastri del successo, Stephen Covey parla proprio del cambiamento e spiega che a connotare questo tipo di processo è il concetto di interdipendenza. I limiti alla crescita delle risorse interne di un gruppo, spiega Covey, nascono dallo scontro fra due modalità relazionali opposte e confliggenti: quello della dipendenza e quello dell’indipendenza.

I gruppi sociali orientati alla dipendenza sono caratterizzati da livelli scarsi di assunzione di responsabilità, da una notevole passività nella gestione delle situazioni critiche, da modalità comunicative orientate al vittimismo. L’indipendenza, invece, è contraddistinta da una grande proattività e iniziativa personale, con il rischio che queste sfocino però nell’individualismo. Questo bipolarismo vale per ogni gruppo sociale complesso, quindi sia per le organizzazioni che per le comunità.

Ci sono leader che si comportano come dei genitori iperprotettivi, che alimentano le insicurezze e i sensi di colpa dei figli per tenerli legati a sé. Molti, per quanto animati da buone intenzioni, si lasciano dominare dal tratto iperprotettivo, atteggiandosi a ‘buon padre’ o ‘buona madre’. Si tratta di personalità alquanto competitive con poca fiducia nelle capacità altrui. Conquistano il potere giocando sul desiderio di molti di delegare a una figura forte le scelte difficili e importanti e si distinguono facilmente dai leader più paritari per la tendenza a esprimersi in modo paternalistico, elargendo giudizi, sia positivi che negativi, e addestrando sottilmente alla dipendenza emotiva e mediatica. Il palcoscenico politico è popolato da figure di questo tipo, dal carisma spesso costruito, che emergono in particolar modo in periodi di crisi culturale o economica e favoriscono il dilagare della dipendenza fra i cittadini. Viceversa, per restare nel campo della politica e della gestione statale, può capitare di assistere all’opera di governi che, dietro il pretesto di non volersi immischiare nella vita dei loro cittadini, lasciano che la società si “autoregoli”, alimentando la competizione fra gruppi sociali e individui.


Invictus è un bel film di Clint Eastwood del 2009 che racconta la storia di Nelson Mandela dopo la fine dell’apartheid, in un momento molto difficile per il Sudafrica. Trovatosi alla guida del suo paese dopo molti anni trascorsi in carcere, Mandela deve fare una scelta difficile: vendicarsi della componente bianca della popolazione sudafricana che ha permesso il protrarsi di un’intollerabile situazione di negazione dei diritti umani della componente nera oppure tentare una riconciliazione, in nome dell’unità nazionale. Una mattina, insediatosi da poco alla Presidenza, raccoglie le lamentele di una delle sue guardie del corpo, il quale ha appena scoperto che fra i suoi colleghi ci saranno anche componenti delle Squadre Speciali. È probabile che molti di loro non solo non abbiano fatto nulla per far cessare il sistema segregazionista, ma che vi abbiano contribuito in modo attivo. “La nazione arcobaleno comincia qui, la riconciliazione comincia qui”, gli risponde Mandela, e aggiunge: “Anche il perdono comincia qui. Il perdono libera l’anima, cancella la paura ecco perché è tanto potente come arma”. In un’altra scena, Mandela interviene a un’assemblea popolare che ha appena votato all’unanimità la fine degli Springboks, la nazionale sudafricana di rugby, simbolo stesso dell’apartheid e per convincere i presenti a cambiare idea dice: “Non sono più i nostri nemici oggi gli afrikaner, essi sono i nostri fratelli sud africani, i nostri concittadini in democrazia… Noi dobbiamo essere migliori, dobbiamo sorprenderli con la comprensione, con la moderazione e con la generosità… io conosco tutte le cose che ci hanno negato, ma questo non è il momento di consumare meschine vendette, è il momento di costruire questa nazione usando ogni singolo mattone a nostra disposizione!” E saranno proprio gli Springboks a diventare il simbolo di una nazione riconciliata, dopo essere stati per anni quello di un paese diviso.

Mandela sceglie la terza via, la via dell’interdipendenza. Covey la definisce come una sorta di consapevolezza della rete di collegamenti sottili che caratterizzano un sistema. Essere orientati all’interdipendenza significa comprendere la relazione tra le parti del sistema e creare un costante processo di feedback che consenta una libera circolazione di risorse, informazioni, messaggi, tal da permettere alle singole parti di comprendersi all’interno di una cornice più ampia.

All’interno di un modello relazionale legato all’interdipendenza, il criterio che permette di valutare la vitalità di un sistema sta nella qualità dei contributi che ciascuno mette a disposizione del gruppo e nel modo in cui questi vengono usati.
Al leader, al Capo del Villaggio spetta il compito di guidare le persone dimostrando che nei gruppi sociali il tutto va al di là della semplice somma delle parti e che l’equilibrio generato dall’interdipendenza è di tipo dinamico: non conta la compiutezza di una singola parte, ma la capacità dei singoli elementi di fondersi in un insieme armonico.

Leggi la I tappa del viaggio: La missione del leader, una faticosa costruzione di equilibri

 

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