Innovare o remixare? Il dilemma della creatività

Sembra ormai un dato acquisito: viviamo in una cultura basata sul remix e sulla ricombinazione di elementi – immagini, segni, idee, oggetti – che qualcun altro ha creato prima di noi (qualche tempo fa, al tema è stato dedicato anche un film). Ridotti a macchine ricombinanti, prendiamo e mescoliamo all’infinito le cose che troviamo alle nostre spalle. Il nostro modo di essere creativi si confonde con la capacità di rubare creativamente qua e là.

Ma è tutto qui o c’è dell’altro? Il critico musicale e osservatore culturale Simon Reynolds ha parlato, su Slate.com, di questa singolare tendenza – che ritrova tra numerosi critici letterari, teorici culturali e artisti – verso l’abbandono della spinta all’originalità. L’idea stessa di creatività intesa come apporto originale e innovativo sembra ormai obsoleta, l’estremo residuo di una nozione romantica di genialità. Reynolds la vede diversamente: non è che questa idea di fine della creatività – accompagnata da proclami ancora più radicali, secondo cui in fondo non siamo mai stati creativi, l’innovazione, almeno in materia artistico-culturale, è solo un miraggio, un effetto di prospettiva – in realtà è solo un modo per liberarci dalla fatica di cercare di essere, almeno in parte, originali?
Non possiamo essere più creativi, al massimo diventeremo ri-creativi, e forse lo siamo sempre stati, dato che c’è chi afferma che addirittura il processo evolutivo si caratterizza come una serie di “rituilizzi di caratteristiche già note in circostanze diverse”. C’è anche chi, nell’ambito della tecnologia e del business, si lancia in paradossali elogi dell’imitazione.

In questa idea secondo cui possiamo solo riprendere e copiare cose dal passato e utilizzare in modo diverso risorse preesistenti, dedicando la nostra creatività solo a un’operazione di collezionismo e riciclaggio creativo, sembra andare perso quello che Reynolds indica con grande chiarezza: il corpo.

“Quello che si perde nel modello ri-creativo è il corpo: l’artista come essere fisico, qualcuno la cui vita e la cui storia personale hanno lasciato su di lui un insieme singolare di desideri e avversioni”.

A renderci originali, sembra dire Reynolds, non è quello che facciamo, ma il modo in cui riusciamo a fare passare ciò che siamo in ciò che facciamo. Non basta remixare le cose per poter davvero creare qualcosa, il confine tra essere capaci di innovare (o ricombinare le cose in modo nuovo) e limitarsi e rimescolare pigramente cose già vecchie passa proprio di qua: il confine siamo noi, nella nostra unicità, un’unicità che è fatta di quello che abbiamo incontrato. Un’unicità che nasce anche dalle visioni da cui traiamo ispirazione, dalle influenze consce e inconsce, dai prestiti. Ma che è fatta anche di passioni, pulsioni, desideri e innamoramenti. Il nostro modo di innamorarci è splendidamente singolare. E in fondo sembra essere questo il segreto della creatività: la nostra opera, che sia un quadro, un libro, un device tecnologico, un progetto sociale, un’impresa, deve parlare di noi.

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