SPC: la scuola di Counseling diversa dalle altre

In SPC, si sono chiuse in questi giorni le selezioni per il Master in Counseling per lo sviluppo organizzativo (a proposito, parte il 29 giugno e ne siamo molto felici!). Durante i colloqui che abbiamo avuto con gli aspiranti partecipanti ci sono state poste, com’è naturale, molte domande su chi siamo, cosa facciamo e perché. Abbiamo cercato di rispondere nel modo più diretto e onesto possibile a tutti i dubbi che ci venivano portati. Ci siamo però accorti che alcune domande ritornavano (e che lo stesso vale per le selezioni di altri percorsi, come il Master di sviluppo personale).
Abbiamo quindi pensato di provare a rispondere qui, in pubblico, girando le domande al fondatore di SPC e DOF, Alessandro Rinaldi, e condividendo le sue risposte. A breve, queste andranno a formare il nucleo della nuova sezione FAQ (domande frequenti, appunto) sul sito della scuola.

Abbiamo selezionato 7 domande fra quelle arrivate, cercando di privilegiare quelle che ci parevano più utili per un numero più ampio possibile di persone. Cominciamo col proporvi le prime 3:

Domanda #1 Come mai la vostra scuola è così diversa dalle altre?

AR: Il presupposto è più classico di quanto si possa immaginare e rimanda al percorso di Carl Rogers, in primis. Quello che, fin dall’inizio, mi ha colpito di più del pensiero rogersiano è che contiene in modo molto forte, secondo me, una tensione forte ad uscire dal confine, dallo spazio limitato dello studio, luogo di terapia e ascolto individuale. In tutto il percorso rogersiano si respira questa visione, legata a quella che lui definisce “tendenza organismica”, che è la tendenza allo sviluppo dei sistemi in modo molto naturale verso la complessità e che lo porta a dire

“se sperimento un modello di relazione efficace con la singola persona, verifico l’impatto che questo modello produce sui suoi sistemi relazionali e mi rendo conto che questo stesso modello è in grado di generare risorse e valore relazionale in contesti sociali via via più complessi”.

È qui, in fondo, che nel pensiero rogersiano nasce l’idea di uscire – letteralmente – dalla porta dello studio e portare la relazione d’aiuto all’interno dei contesti più diversi, da quello scolastico a quello organizzativo. Non dimentichiamoci che gli anni in cui si parlava di sviluppo organizzativo, Rogers era uno dei ricercatori che più spingeva verso la possibilità di sperimentare l’impatto di relazioni “sane” e autentiche all’interno di contesti la cui finalità primaria era di produzione. D’altra parte, se guardiamo ai tempi di questo suo percorso che l’ha portato dallo studio verso il mondo, l’atto estremo di coerenza sta nel fatto che – nei suoi ultimi anni – sappiamo bene quanto fosse impegnato nell’attivazione della modalità relazionale dei grandi gruppi, quindi nel tentativo di lavorare anche sulla dimensione del conflitto in situazioni molto problematiche (vedi i tentativi fatti nei rapporti di mediazione tra Israele e Palestina o in Irlanda).

Continuiamo a stupirci del fatto che molte scuole rogersiane siano tuttora ancorate all’idea del lavoro sulla dimensione del colloquio, proponendolo come elemento centrale ma soprattutto come l’elemento che chiude l’esperienza del Counseling. Per noi, invece, il colloquio è sempre stato una “grammatica di minima” per riflettere sulle potenzialità della relazione, che abbiamo cercato via via di ambientare in luoghi molto più eterogenei, facendo nostra proprio la spinta rogersiana.

Domanda #2 Conoscevo il Counseling, ma non sono sicura di aver compreso bene la differenza con il Counseling di processo.

AR: Cosa significa Counseling di processo? Nient’altro che trovare una via per essere in contatto con la nostra parte più autentica: con il Sé, se vogliamo rimanere nel solco di un debito junghiano, o più con quella parte che ancora non si è ancora compiutamente espressa, trovando diritto di cittadinanza nel mondo, ma che esiste in nuce all’interno di noi. Questo è il primo livello del Counseling di processo: riuscire a mettersi in contatto con questa parte.

D’altra parte, il secondo tempo di questa partita con noi stessi consiste invece nel trovare il coraggio di manifestarla, questa parte di autenticità, che è tutt’altra cosa. Nella prima, spesso, seguiamo un percorso di introspezione, di riscoperta e decostruzione di visioni limitanti di noi stessi che si sono andate costruendo nel corso degli anni, di verifica delle nostre aspettative e di scoperta di alcuni nuclei che sono rimasti molto giovani dentro e, quindi, molto fragili, che hanno vissuto un po’ separati dalla nostra vita emersa. Proprio per questo, metà del percorso totale consiste nello sviluppare la solidità emotiva necessaria per trovare il coraggio di manifestare questi nuclei, una volta che li abbiamo portati a un livello emerso di consapevolezza. Questo è tutt’altro che facile perché spesso quello che facciamo è deludere noi stessi (nelle nostre aspettative) per non deludere gli altri e le loro aspettative. Quando lavoriamo su questi temi, arriva un momento in cui mettiamo a rischio il delicato meccanismo della nostra facciata sociale.

Esplorare i nostri nuclei profondi significa affrontare il cambiamento. Tutto questo per noi è il processo.

Riassumendo, potremmo dire che il Counseling di processo è una forma di relazione d’aiuto che si basa sul processo e questo processo consiste nel contattare e nutrire quella parte più profonda di noi stessi, attivando le risorse necessarie ad esprimerla nel mondo, impegnandoci nel quotidiano per tradurre il Sé nella nostra vita quotidiana.

Domanda #3 Oltre che una scuola di Counseling, siete anche una società di consulenza e formazione. Non è strano? Perché avete fatto questa scelta?

AR: Credo che, ad oggi, l’elemento distintivo della scuola consista nel fatto che questo grande sogno di lavorare sulla qualità di relazione in un’epoca in cui sembra esserci poco tempo per farlo non è soltanto un sogno che le persone alimentano nel cassetto segreto delle loro speranze, ma un sogno che molti vivono nella quotidianità.

Chi insegna all’interno della Scuola, ad esempio, si misura con quel prerequisito centrale che è quello parlare di Counseling condividendo le esperienze fatte nel mondo. Per tutti loro, la scuola è una forma di completamento della propria attività quotidiana: uno spazio, un ambito – importante, delicato e complesso – in cui portare le scoperte che, col sudore della giornata di lavoro e di ricerca, fanno nel mondo. È come se il 95% delle nostre attività fosse rappresentato da una verifica costante che ci aiuta a capire se, a partire dal modello del Process Counseling, si può creare un modo nuovo per lavorare sulle competenze all’interno delle comunità sociali (com’è stato per il progetto di THE VILLAGE) o studiare la possibilità di utilizzare il Counseling per formare reti di facilitazione in aziende molto diverse, tanto in realtà complesse del privato industriale quanto all’interno della Pubblica Amministrazione (come nel progetto sui Circoli di ascolto organizzativo).
Nella Scuola non facciamo che portare i risultati di questi esperimenti.

Se volete fare una domanda, potete scriverla qui sotto, nello spazio dedicato ai commenti. La risposta si aggiungerà a quelle che Alessandro ha dato alle altre 4 domande e verrà pubblicata nel prossimo post 🙂

 

I contenuti di questo post sono rilasciati con licenza Creative Commons 3.0 (CC BY-NC-SA 3.0).

Condividi con la tua rete!

Dicci cosa pensi

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Ritrova la centratura con Shibumi: parti dal Podcast!